HELEN FRANKENTHALER in mostra a Palazzo Strozzi di Firenze

Paolo Orsini • 20 gennaio 2025

Si sta per concludere a Palazzo Strozzi di Firenze la più ampia retrospettiva mai organizzata in Italia dedicata a Helen Frankenthaler

La mostra offre una panoramica approfondita della produzione dell’artista americana e pone le sue opere in confronto con quelle di artisti a lei contemporanei come Jackson Pollock, Robert Motherwell, Mark Rothko, Morris Louis, David Smith, Anthony Caro e Anne Truitt.

Un suggestivo percorso non soltanto tra grandi tele, ma anche tra opere su carta e sculture che mette in risalto la straordinaria originalità dell’artista che ha infranto le convenzioni dell’arte tradizionale, creando un universo artistico fatto di astrazione poetica, tecnica e sconfinata immaginazione.

Le tele sono realizzate con tecniche diverse, alcune con pittura a olio, altre con tinte acriliche. È importante conoscere le differenze tra questi due modi di dipingere, per comprendere appieno la cifra stilistica di Helen Frankenthaler. 

La pittura a olio richiede più tempo, il colore asciuga più lentamente e ciò permette di modificare più facilmente la rappresentazione. I colori acrilici impongono un lavoro più veloce, soprattutto in estate quando tendono ad asciugarsi subito, si può diluire il colore con acqua e ciò permette una creatività più sintetica e immediata, anche se la “sfumatura” è più facile con i colori a olio. 

All’inizio degli anni Cinquanta Helen Frankenthaler si fece influenzare dal segno grafico di Jackson Pollock, inserendo ai margini delle proprie forme colorate un “contorno” che conferiva alle opere una plasticità quasi scultorea senza sconfinare nella tridimensionalità. La pittrice entrò in contatto con alcuni pittori che con Pollock formarono la cosiddetta Scuola di New York, come Willem de Kooning, Mark Rothko, Robert Motherwell, Barnett Newman, Franz Kline e vari altri.

La mia regola è nessuna regola, e se hai un vero senso dei limiti, allora sei libero di infrangerli (Helen Frankenthaler)

Con questo motto, Frankenthaler si allinea alle cifre stilistiche dei pittori della generazione dell’immediato dopoguerra, come appunto Rothko e Pollock, che abbracciarono definitivamente l’astrattismo dopo aver riflettuto su primitivismo, figurazione e surrealismo.

Astrattismo che ritroviamo in quasi tutte le opere di Helen Frankenthaler, ma soprattutto in quadri come Muro aperto (1953), Sogno occidentale (1957) o Pensieri mediterranei (1960), Tutti-frutti (1966), Mobile blu e Fiesta (1973), Plexus (1976), Madrid (1984), Janus (1990), Il progresso del rastrello (1991), la straordinaria tela acrilica Maelstrom del 1992, e infine Impianto solare (1995).

Gli anni Sessanta decretarono il successo della Pop Art come tributo iconoclastico alla società dei consumi, ma l’approccio artistico “contemplativo” di Helen Frankenthaler sembra quasi non percepire. Piuttosto si confronta con la scultura astratta ma carica di valori costruttivi, di David Smith col il quale ebbe una profonda e duratura amicizia.

Lo sguardo di Helen si concentra anche su forme rettangolari stratificate che hanno reso universalmente celebre Mark Rothko: ampie zone di colore saturo o sfumato che non raggiunge mai l’astrazione pura, ma lasciano lo spettatore avvolto in una suggestiva nebulosa di ammirazione.

Le forme irregolari e astratte che fluttuano sul limite dell’ambiguità raggiungono il loro apice di suggestione in Cape – Provincetown del 1964 dove Frankenthaler crea una composizione di colori-masse in successione tonale di azzurro denso. 

Con il marito, Robert Motherwell, Helen compone un sodalizio iniziato alla fine anni Cinquanta quando i due s’incontrano nella Galleria di Leo Castelli – l’artefice delle fortune sia dei protagonisti dell’espressionismo astratto, sia di certi esponenti della Pop Art.

Helen però mantiene sempre la sua autonomia, che è anche la sua particolare forma di ambiguità, nel modo con cui la pittrice si relaziona allo spazio. In questo periodo, trova in artisti come David Smith, Anne Truitt e Anthony Caro un rapporto d’amicizia e di reciproci confronti artistici. 

Di questi rapporti l’artista americana ha lasciato testimonianza in un cospicuo carteggio, di cui nel catalogo è pubblicata, per la prima volta, una ampia scelta di lettere che dimostrano la relazione esistenziale tra la pittura e il carteggio.

Queste lettere non sono soltanto racconti intimistici di esperienze umane o di episodi accaduti, da cui la sua pittura trae alimento come emozione; al contrario, quella pittura, nella sua variegata espressione formale, è il retroterra sul quale si proietta la vita dell’artista.

Il dato essenziale, senza nulla togliere al rapporto amicale con gli altri artisti, sta nel fatto che Helen Frankenthaler ha imposto il suo personale stile in piena libertà. Lo slogan scelto come titolo di questa mostra “senza regole” lo testimonia.

Che significato ha questo slogan? A ben guardare, difficilmente confonderemo la pittura di Frankenthaler con quella dei suoi maestri pittori o con il linguaggio dei suoi amici scultori. Lo sforzo per mantenere questo legame senza esserne succube è appunto la piena libertà di idee e di azione con cui l’artista americana ha lavorato per tutta la vita.

L’astrattismo fu la novità artistica americana del Dopoguerra, utilizzato come una sorta di arma segreta in quella che è stata chiamata “The Cultural Cold War”, quando si scoprì che a partire dagli anni Cinquanta la CIA sponsorizzò gli artisti astratti americani – Pollock, De Kooning, Rothko ecc. – contrapponendone la forza estetica a quella dei pittori del realismo socialista sovietico.

Quando guardiamo Helen Frankenthaler, dobbiamo pensare che, pur essendo l’astrattismo un valore importato dall’Europa, in America esso divenne una forma d’avanguardia elitaria, che ha cercato di fare dell’arte un idioma internazionale della libertà creativa.

Il che non deve far dimenticare quanto questa idea abbia accompagnato le sorti del capitalismo americano. Con queste premesse, la contrapposizione CIA-URSS trovava anche un terreno di sfida culturale che sembrava contrapporre modernisti e reazionari.

Penso che l’arte stessa sia ordine dal caos (Helen Frankenthaler)

Il dipinto più poetico e più freddo al tempo stesso della mostra s’intitola Mornings (Mattine) del 1971. A 43 anni la pittrice americana aveva già recepito certe invenzioni linguistiche e artistiche per via delle sue frequentazioni con i pittori “astratti”. Il quadro presenta campiture verticali di giallo prima intenso e poi via via più chiaro e secco, in altri due strati, attraversati da filamenti neri. Un dipinto abbastanza diverso da altri dell’epoca, anche se non un unicum.

E questo ci porta al secondo tema che emerge osservando i quadri di Frankenthaler. Si tratta, e non va intesa come una diminuzione, di pittura al femminile. Douglas Dreishpoon la definisce una “femminista riluttante” perché, come scrive il critico, la sua pittura pone essenzialmente questioni estetiche e non questioni sociali, come facevano molti altri pittori a lei contemporanei.

Frankenthaler invece ci fa capire che la pittura di una donna è diversa da quella maschile proprio nella valenza strutturale: perché una pittrice difficilmente considera il quadro una soglia tra figurativo-astratto o tra forma-informe.

Uno dei maggiori contributi di Frankenthaler è stato lo sviluppo di una tecnica innovativa chiamata soak-stain (“imbibizione a macchia”), che permetteva al colore di penetrare direttamente nella tela non preparata, creando superfici liquide e luminose. Questa tecnica, influenzata da Pollock ma che al contempo segnava una distanza dalla sua opera, fu per Helen Frankenthaler un punto di svolta che avrebbe plasmato tutto il suo lavoro.

Introdotta nel 1952, la tecnica consisteva nel versare o diluire il colore direttamente sulla tela non preparata, permettendo al pigmento di penetrare e “macchiare” il tessuto. Questo metodo le permetteva di ottenere effetti di trasparenza e fluidità impossibili con i tradizionali metodi di pittura a olio o acrilico.

L’opera che segna il debutto di questa tecnica è Mountains and Sea (1952). La tela, di grandi dimensioni e leggera come una macchia d’acqua, rivoluzionò il mondo dell’arte astratta. L’uso di vernice diluita ad olio applicata su tela non trattata consentiva al colore di essere assorbito e diffondersi, creando un effetto etereo e sfumato che sarebbe diventato la firma di Frankenthaler.

La tecnica prevedeva quattro passaggi. 1) la preparazione della tela: Frankenthaler utilizzava tele di grandi dimensioni, non preparate con gesso e colla (questa scelta permetteva ai colori di essere assorbiti direttamente nelle fibre della tela); 2) la diluzione del colore: i colori a olio venivano diluiti con trementina o altri solventi per ottenere una consistenza fluida e trasparente. Questo processo facilitava la diffusione del colore sulla tela.

3) l’applicazione del colore: sulla tela distesa orizzontalmente, Frankenthaler versava, spruzzava oppure applicava i colori, permettendo loro di espandersi e assorbirsi nel tessuto. A partire dal 1962, Frankenthaler iniziò a sperimentare anche con i colori acrilici, adottandoli definitivamente in seguito.

L’ultimo passaggio era l’intervento dell’artista sul dipinto. Sono sempre stata interessata alla pittura che, da un lato, ricerca la superficie piatta e, dall’altro, la nega (Helen Frankenthaler).

Helen Frankenthaler utilizzava una varietà di strumenti per manipolare i colori, come pennelli e spugne di diverse forme e dimensioni, rulli per applicare il colore in modo uniforme, stracci per spandere o sfumare il colore, mani e dita per un controllo diretto, pipette e siringhe per applicazioni precise, bastoni, spatole e rastrelli per graffiare o disegnare sulla superficie fresca.

Nacque il 12 dicembre 1928 a New York in una famiglia di origini ebree. Suo padre, Alfred Frankenthaler, era un giudice della Corte Suprema dello Stato di New York, mentre sua madre Martha Lowenstein era un’emigrata dalla Germania. L’influenza del retroterra culturale e intellettuale della famiglia fu determinante nella crescita artistica di Helen, che fin da piccola mostrò un forte interesse per l’arte. 

La formazione di Helen iniziò presso la Dalton School, una scuola progressista di New York, dove studiò sotto la guida del pittore Rufino Tamayo, noto per la sua fusione tra surrealismo, astrattismo e cultura messicana, che la introdusse all’importanza del colore e della forma. 

Successivamente, frequentò il Bennington College, dove approfondì lo studio dell’arte europea e moderna, e dove entrò in contatto con gli scritti di Clement Greenberg, il famoso critico d’arte che avrebbe avuto un ruolo cruciale nella sua carriera e vita personale.

La formazione accademica di Helen si rivelò fondamentale per la sua carriera, poiché le fornì un bagaglio tecnico e teorico che le permise di sviluppare uno stile personale e distintivo, che combinava le influenze del passato con l’innovazione contemporanea.

Durante la sua formazione al Bennington College, Helen studiò in modo approfondito i grandi maestri europei, tra cui Paul CézannePablo Picasso e Henri Matisse, e i loro insegnamenti ebbero un ruolo cruciale nello sviluppo del suo linguaggio visivo. Cézanne, in particolare, influenzò il modo in cui Frankenthaler concepiva la pittura di paesaggio.

Sebbene la sua opera sia lontana dalla pittura figurativa di Cézanne, l’idea di scomporre le forme naturali in piani di colore è evidente nelle sue tele. Cézanne, attraverso il suo approccio innovativo alla pittura paesaggistica, fornì dunque a Frankenthaler un punto di riferimento per la sua esplorazione del rapporto tra colore e spazio.

Credo nella tradizione”, ha detto Helen Frankenthaler. “Nel mio caso, la mia formazione – le mie radici – si è basata su Cézanne, sul Cubismo analitico di Picasso e su Braque, Kandinsky, Miró, Gorky, Pollock e molti dei loro contemporanei, mentori e amici". 

"Ho imparato ad apprezzare i maestri del passato, il Quattrocento, il Rinascimento, insieme al lavoro dei miei contemporanei. A volte per un artista, credo che gli sviluppi estetici si insinuino quasi senza preavviso, con una sottile urgenza, una sorpresa inconsciamente programmata. C’è un ordine naturale”.

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