A cura del direttore di Palazzo Strozzi Arturo Galansino, la mostra presenta più di 30 opere che testimoniano l’originale cifra stilistica dell’artista da sempre attento alla relazione tra immagine e realtà, in un continuo scorrere e mescolarsi tra vita personale e storia collettiva, tra Oriente e Occidente.
Ha cominciato a lavorare negli anni Ottanta, anche se la pittura figurativa non era di moda, perché era con questo linguaggio che si sentiva a proprio agio e da allora ha sempre utilizzato questa forma di espressione. Da giovane, in Cina, non aveva la possibilità di trovare modelli a disposizione per essere ritratti, allora chiedeva ai membri della sua famiglia di posare per lui. Ne è nata una galleria che rappresenta un universo personale molto intimo e che ha segnato per sempre la cifra stilistica dell’autore.
Cresciuto durante la rivoluzione culturale, ha avuto la sua fortuna con i ritratti di Mao-Zedong. Come dice l’autore, nessuno conosceva Yan Pei-Ming ma tutti conoscevano Mao; questo gli ha permesso una certa notorietà e la possibilità di allargare i suoi orizzonti, che in gioventù si limitavano agli autoritratti e alle opere riguardanti la propria famiglia.
Determinante, per la sua formazione, il viaggio ad Amsterdam nei primi anni Ottanta, per studiare gli autoritratti di Rembrandt, Picasso, Van Gogh. Si convince che attraverso l’autoritratto sia più semplice rappresentare il modo con cui un pittore esprime il proprio linguaggio. La mostra di Palazzo Strozzi si apre infatti con un autoritratto, Nom d’un chien! Un jour parfait, per la prima volta affiancato da un oggetto del suo studio, fatto da scarti delle tempere dei suoi dipinti, la cui tridimensionalità mette in risalto la matericità del suo lavoro. “Questo carrello con i resti di vernice è in un certo senso il mio autoritratto come pittore. È la rappresentazione del tempo che passa. Volevo esporlo già due o tre anni fa, ma non ne ho avuto la possibilità. Palazzo Strozzi è il luogo ideale per esporlo”, dice Yan Pei-Ming
Dal 1983, dopo aver visitato a Shangai la mostra Paesaggio francese e contadini: la vita rurale in Francia nel XIX secolo, 1820-1905, decide di trasferirsi in Francia dove frequenta le scuole d’arte. Ha la possibilità di capire l’arte occidentale, anche se non rinnega le sue origini, dragoni, tigri, Bruce Lee e Buddha compaiono in molte sue opere, affrontando comunque tutti i generi classici della pittura: storia, ritratto, autoritratto, natura morta, paesaggio, animali.
Determinante per la propria crescita artistica, la permanenza in Italia nel periodo 1993-94 come borsista, viaggiando continuamente tra Milano, Pisa, Venezia, Roma, Firenze, dipingendo soprattutto ritratti, ma anche quadri legati alla storia italiana e di Roma, in particolare: papi, rivisitazioni dei quadri di Caravaggio a San Luigi dei Francesi, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, quadri in omaggio a film come «Mamma Roma» di Pasolini o «Roma città aperta» di Rossellini.
Si è sempre ispirato, sin da giovane, ai grandi maestri italiani, Caravaggio, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Tiziano. Li evoca attraverso l’uso della pittura monocroma, non li affronta sul piano del colore, ma su quello più intimo e misterioso del contrasto tra luce e ombra. Si lascia catturare dai soggetti eterni ma il suo gesto pittorico è contemporaneo, attuale, non è mai rivisitazione o citazione, ma assume una sua originalità e una sua collocazione nel panorama artistico mondiale.
Il monocromatismo è una sida ardua per un pittore, difficile dare profondità al quadro usando un solo colore e, a mio avviso, Yan Pei- Ming non ci è riuscito, la sua tigre è talmente piatta, a una sola dimensione, che non riuscirà mai spiccare il salto. Anche il Chien hurlant è muto, non trasmette quella sensazione di timore che le sue fauci spalancate dovrebbero incutere.
In mostra è esposta una sequenza di opere legate alla storia italiana più drammatica dell’ultimo secolo, riunite quasi in una trilogia: il corpo di Mussolini appeso a testa in giù assieme a quello della sua amante (28 aprile 1945); il ritrovamento del corpo di Pasolini (2 novembre 1975); il ritrovamento del corpo di Aldo Moro (9 maggio 1978). In tutti e tre i casi non è il momento della morte, ma quello in cui l’immagine della morte è stata mostrata al mondo.
Questa mostra non è bella, e non è utile. Non è bella perché il pittore è sì grande ritrattista, ma riesce a esprimere il massimo del suo talento soltanto negli autoritratti, come nel caso del trittico Nom d’un chien! Un jour parfait, non a caso collocato a inizio mostra dal curatore Galansino, e in altri due del polittico sul funerale di Monna Lisa. Pittore quindi intimista, che dà il meglio quando esplora se stesso. Gli altri ritratti non emozionano. Andy Wharol con molti decenni di ritardo, ha raffigurato personaggi icone pop, come Mao o Bruce Lee, Putin e Zelensky, oppure si è avventurato in terreni aspri e pieni di trabocchetti come la raffigurazione di quadri molto conosciuti di pittori molto noti. C’era bisogno, per esempio, di un’ennesima Gioconda di Leonardo? Peggio ancora, la raffigurazione monocromatica del quadro di Goya che ricorda la fucilazione del 3 maggio 1808 da parte dei soldati di Napoleone di un gruppo di rivoltosi. Goya riesce a dare una profondità drammatica incredibile al suo quadro, mentre il suo imitatore franco-cinese resta invischiato in una grigia piattezza priva di emozioni.
Un altro terreno spinosissimo è quello del paragone tra pittura e fotografia. Nella rappresentazione pittorica di alcuni avvenimenti molto importanti della storia, ripresi da immagini fotografiche, il quadro non regge il confronto con la fotografia. Il primo eternizza il momento, lo eleva a riflessione ideologica, lo appiattisce nell’insieme della tecnica pittorica che ha una valenza del tutto diversa dall’istantanea fotografica. La foto, invece, rappresenta quel preciso istante nello scorrere del tempo e dello spazio, una frazione di secondo prima o dopo è completamente diversa, mentre la pittura no, eternizza didascalicamente. È quell’istante irripetibile che fa di una fotografia ben fatta un capolavoro, riprodurla con la pittura significa svilire tutto ciò che c’è di più emozionante in questa tecnica. Ecco quindi che, a mio parere, un pittore deve dare la sua interpretazione di un avvenimento storico, certo lasciandosi ispirare da una foto, poi percorre tutta un’altra strada, personale, peculiare, unica, se vuole vincere la sfida. Nel caso dei quadri di Yan Pei-Ming che riproducono momenti immortalati dalle foto la sfida è persa, basta andare a vedere le foto a cui si è riferito, fra tutte quelle di Mussolini e Claretta Petacci a testa in giù in Piazzale Loreto, una foto di una drammaticità incredibile, carica di tutta l’enorme sofferenza che il dittatore ha fatto patire agli italiani e di tutta la speranza per un futuro migliore. Tutto ciò non riesce a venire fuori dalla tempera usata dal pittore. Anche la foto del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in Via Caetani a Roma ha una drammaticità pazzesca, sembra quasi che lo spettatore e tutta l'Italia in quel momento attonita, sia per essere risucchiato in quel buco nero dell'interno della Renault. Guardate il quadro di Yan Pei-Ming e ditemi se avete la stessa sensazione di sprofondamento.
Infine, ho parlato di mostra non utile per l’arricchimento culturale dello spettatore. Sono messi in risalto soltanto ritratti di grandi uomini della storia, dai cardinali ai dittatori. D’accordo che il nostro ha vissuto in Cina al tempo della rivoluzione culturale di Mao, ma se non sbaglio c’era la lotta al culto della personalità, perché raffigurare questi uomini potenti, il loro culto della forza, il loro machismo? L’aggressività, la forza, la potenza repressiva, rappresentata dalla tigre e dal cane da guardia che mostra i denti. Di Bruce Lee ci bastano e avanzano gli orrendi film che ci propinano le televisioni commerciali. Una galleria di sanguinosi dittatori, da Mao a Napoleone, da Hitler a Mussolini, che hanno sulla coscienza milioni di morti, raffigurati in pose ieratiche, solenni, quando la contemporaneità distrugge le loro statue?
Quando, poi, sono entrato nella sala dove c’è il ritratto di Putin, mi sono indignato. Egregio Curatore Sig. Galansino, non era meglio evitare di appendere quel ritratto, in questo particolare momento della storia?